S. Horvat – La radicalità dell’amore

Amore e rivoluzione. Cosa hanno in comune?
Ad un primo sguardo potremmo dire che un momento rivoluzionario, al pari dell’amore, rappresenta una rottura col mondo, col regolare corso degli eventi, un evento che solleva la polvere sedimentata che impedisce al nuovo di emergere. Ma cerchiamo di andare più a fondo. Ciò che implica una sollevazione popolare è la creazione di un Noi a partire da minuscole separate individualità. Il punto non è l’amore. Cosa è allora? (pausa ad effetto, rullo di tamburi)

La solidarietà. Certo, ogni atto di solidarietà contiene amore, è una specie di amore, ma distillato, più grande, amore all’ennesima potenza. Per sviluppare la solidarietà, abbandonare quella perniciosa abitudine che tutti abbiamo a soddisfare solo i propri interessi, è necessario l’impegno e l’autodisciplina. Si tratta di energia: disperdere in vani piaceri ciò che invece potrebbe essere convogliato nella lotta rivoluzionaria. Va detto però che secondo alcune correnti di pensiero è il desiderio stesso ad essere rivoluzionario, come si può osservare negli stati totalitari. Il desiderio, sia chiaro, inteso come spinta e non come baccanale. Per esempio Deleuze:

“Checchè ne pensino certi rivoluzionari, il desiderio è nella sua essenza rivoluzionario – il desiderio, non la festa – e nessuna società può sopportare una posizione di desiderio vero senza che le sue strutture di sfruttamento, di asservimento, di gerarchia vengano compromesse”

Può essere interessante vedere cosa ne pensava al riguardo quel grande rivoluzionario del novecento che risponde al nome di Vladimir Il’ič Ul’janov, conosciuto come Lenin. In una lettera egli scrive:

“Nella vita sessuale si manifesta non solo ciò che noi deriviamo dalla natura ma anche il grado di cultura raggiunto, si tratti di cose elevate o inferiori. Certo, la sete deve essere tolta. Ma un uomo normale, in condizioni ugualmente normali, si butterà forse a terra nella strada per bere in una pozzanghera di acqua sporca?”

Lenin si pone su un pericoloso crinale, sospeso fra moralismo e necessità rivoluzionaria, cercando di conciliare libertà e autodisciplina. Il socialismo doveva certamente promuovere la gioia di vivere e la potenza della vita, e un amore vissuto nel senso pieno della parola era cosa bella ed utile, tuttavia l’ipertrofia degli incontri sessuali, il cieco piacere fine a sè stesso, era giudicato inutile, se non pericoloso a fini rivoluzionari. Il riSchio sottointeso era perdersi nel proprio piccolo sè invece di espandersi e creare un noi su cui fondare una società più solidale e giusta.

E che dire allora del tormento provato da Che Guevara durante tutta la vita, dovendo scegliere fra l’amore per la compagna e i figli e la lotta per l’emancipazione dell’uomo. In questa lettera all’amata, le parole emergono come ferite:

“Amami, appasionatamente, ma capiscimi: il mio destino è segnato, niente mi fermerà fino alla morte. E non piangerti addosso; affronta con decisione la vita ed escine vincitrice. E così potremmo ancora fare qualche tratto di strada assieme. Quel che mi porto dentro non è una sterile sete d’avventura. Ciò che comporta io l’ho sempre saputo; tu avresti potuto immaginarlo”.

Ciò che ci insegnano queste esperienze, limitate e non esaustive, è che forse ciò che un uomo dedito al cambiamento deve fare è rendere puro il suo amore. La pretesa al possesso esclusivo di un altro essere umano non è il vero amore, anzi è l’esatto contrario. Ciò che, anche nel mondo odierno, si è reso necessario è un movimento di allargamento: uscire dalla ricerca del piacere, dalle proprie paure, e abbracciare ogni persona con l’amore. Un movimento d’unione e non d’esclusione è possibile: la propria amata e tutto il resto. Questa è la forza rivoluzionaria del vero amore.

R. Girard – Menzogna romantica e verità romanzesca

Siamo abituati a vedere il desiderio come una costruzione rettilinea che dal soggetto va direttamente all’oggetto: per esempio, io desidero essere ricco, quindi l’oggetto delle mie brame è la ricchezza in sè. Girard invece afferma che il desiderio ha una costruzione triangolare, ossia fra il soggetto e l’oggetto sta sempre un mediatore: per esempio io non bramo l’oggetto ricchezza in sè ma desidero essere ricco perchè esistono persone ricche, che fungono da catalizzatore del desiderio, e quindi, in realtà, quello che voglio è essere come quelle persone. Questo meccanismo triangolare del desiderio è sempre e comunque valido, e si applica a tutte le nostre voglie.

Quello che Girard sta dicendo è che la legge universale del comportamento umano consiste nel carattere mimetico, nel senso di imitativo, del desiderio. Noi imitiamo dagli altri i nostri desideri, le nostre opinioni, il nostro stile di vita. Chi imitiamo esattamente?, vi chiederete. Imitiamo le persone che stimiamo e rispettiamo, mentre contro-imitiamo le persone che disprezziamo. Quindi il nostro comportamento è sempre un’imitazione, perché è sempre in funzione dell’altro, nel bene come nel male.

 

Ma non finisce qui. Molto interessante è il fatto, nota l’autore, che questo modo di intendere il desiderio ha la sua radice in un male ontologico: il nostro desiderio di assoluto, che nella nostra società moderna viene distorto e reindirizzato dal sacro al mondano. Vi ricorda qualcosa? Non provate mai un senso di mancanza? Non cerchiamo più l’appagamento del nostro desiderio metafisico, che si configura come felicità, salvezza, o altro, in un dio distante ma in ciò che chiama mediatori, sempre più vicini a noi, che prendono incosciamente il posto della divinità oramai assente. Il nostro desiderio si configura quindi come una trascendenza deviata che non potrà mai essere soddisfatta. Quindi, assumendo un’ottica negativa, possiamo affermare che male e desiderio sono profondamente legati. Dice l’autore:

“Il male esiste ed è il desiderio metafisico stesso, è la trascendenza che tesse gli uomini al rovescio, separando ciò che essa pretende di unire, unendo ciò che pretende di separare[…].
Il valore dell’oggetto consumato dipende oramai solo dallo sguardo dell’altro. […] L’altro domina sempre l’esistenza dell’individuo ma questo altro non è più, come nell’alienazione marxista, un oppressore di classe, è invece il vicino di casa, il compagno di scuola, il rivale professionale. L’altro diventa più affascinante a mano a mano che si avvicina all’io”.

 

Ci crediamo esseri autonomi e liberi, crediamo nell’unità psicologica delle persone, nella nostra compatezza come IO, dissumulando a noi stessi la verità del desiderio, che è invece triangolare e mediato da altri. Questa è la grande menzogna romantica secondo l’autore, in cui siamo tutti avvinti. Menzogna che può assumere il carattere di autoinganno.

Troviamo poi un altro concetto a mio avviso molto affascinanante, che è quello di ostacolo. è proprio l’ostacolo che rinforza la passione, è l’ostacolo che tendiamo a ricercare perchè porta al parossisimo l’intensità del nostro sentire, anche se si configura poi come sofferenza. Anzi forse proprio per questo. Il termine ultimo di questa corsa verso ciò che ci sembra salvezza si esaurisce nel suo contrario, avverte l’autore:

“Il male ontologico continua ad aggravarsi man mano che il mediatore si avvicina al soggetto che desidera. Il suo termine naturale è la morte. […] Al masochismo succede l’ultimo stadio del desiderio metafisico, quello dell’autodistruzione”.

 

Davanti a questa evidenza, la lucidità contemporanea, il disincanto dell’uomo moderno, esegue una rotazione di trecentossessanta gradi e ritorna alla cecità. Adesso il desiderio metafisco coincide con la dissimulazione estrema, il pretendere di non desiderare, come il Mersault di Camus o il Roquentin di Sartre:

“Sono gli altri che desiderano intensamente, è l’eroe, cioè l’io, che desidera debolmente o addirittura non desidera affatto; […] Il primo romantico cercava di provare la sua spontaneità, cioè la propria divinità, desiderando più intensamente degli altri. Il secondo romantico cerca di provare la stessa cosa, ma con mezzi opposti. […] Si tratta sempre, insomma, di convincere gli altri e soprattutto di convincere sè stessi che si è perfettamente e divinamente autonomi
[…]Dietro la fantasmagoria moderna, dietro il turbinio degli avvenimenti e delle idee, al termine dell’evoluzione sempre più rapida della mediazione interna, vi è il nulla. L’anima è giunta ad un punto morto”.

Il caro vecchio Nulla.

D. de Rougemont – L’amore e l’Occidente

Qui, dunque, parliamo d’amore. Il punto di partenza del testo di de Rougemont è il racconto classico di Tristano e Isotta, individuato dall’autore come snodo fondamentale, cesura rispetto al passato, mito fondante di una nuova cultura. Con esso si delineano una volta per tutte, con una straordinaria resistenza attraverso i secoli, le tappe e l’idea di passione alla base dell’amore cosiddetto romantico. Si tratta infatti di un mito ancora alla base delle nostre credenze attuali e che serve a celare l’oscuro segreto della civiltà occidentale. Scrive l’autore:

“Abbiamo bisogno di un mito per esprimere il fatto oscuro e inconfessabile che la passione è legata alla morte, e ch’essa porta con sè la distruzione per coloro che vi si abbandanona con tutte le forze. La verità è che noi vogliamo salvare questa passione, e che amiamo teneramente questa sventura ad onta che le nostre morali ufficiali e la nostra ragione le condannino”.

Un mito che, ripercorso attraverso i secoli, troviamo cantato dai Trovatori medievali, imbevuto dell’atmosfera dell’eresia Catara, superato dall’Illuminismo e riaffermato con il Romanticismo, pervade ancora oggi la nostra filosofia dell’amore e stimola concretamente le nostre vite in una ben peculiare direzione contraria agli interessi della razionalità e della morale sociale. L’importanza di questa idea pervicace, quasi un’atmosfera maligna, che respiriamo ogni giorno non va sottovalutata, essa è dappertutto e agisce sulle nostre vite di ogni giorno:

“Il mito agisce ovunque la passione è sognata come un ideale, non già temuta come una febbre maligna; ovunque la sua fatalità sia chiamata, invocata, immaginata come una bella e desiderabile catastrofe, e non già come una catastrofe.
Esso vive della vita stessa di coloro i quali credono che l’amore sia un destino; che piombi sull’uomo impotente e travolto per consumarlo in un puro fuoco; e che sia più forte e più vero della felicità, della società, della morale”.

Su questo aspetto de Rougemont è inflessibile: ribadisce più volte la sua antipatia verso la forma di amore chiamata Eros, che secondo lui nasconde sotto le apparenze di vita una spinta verso il caos e la morte. Giunge perfino a definirlo come forma travisata di amore, falsa e meschina, solo una passione egoistica che si configura come desiderio di assoluto, di una vita migliore, una ricerca inutile di un senso di pienezza che invero si potrà trovare solo nella morte, e che non riesce a generare nè comunione nè comprensione con l’altro bensì un senso di chiusura ed isolamento. Scrive:

“Tristano e Isotta non si amano, l’hanno detto e tutto lo conferma. Ciò che essi amano, è l’amore, è il fatto stesso di amare […] Tristano ama di sentirsi amato, ben più che non ami Isotta la bionda. E Isotta non fa nulla per trattenere Tristano presso di sè: le basta un sogno appassionato. Hanno bisogno l’uno dell’altro per bruciare, ma non dell’altro com’è in realtà; e non della presenza dell’altro ma piuttosto della sua assenza”

E ancora:

“Duplice infelicità della passione che fugge il reale e la Norma del Giorno, essenziale infelicità dell’amore: ciò che si desidera di più non lo si possiede ancora (è la Morte) mentre si perde ciò che si aveva (il godimento della vita). Ma questa perdita non è sentita come un impoverimento; tutt’al contrario. Ci si immagina di vivere di più, più pericolosamente, più grandiosamente. La vera ragione è che l’avvicinarsi della morte è lo stimolo della sensualità”.

E non è finita qui: afferma anche che spesso ricerchiamo l’ostacolo alla passione in quanto tale, perchè è proprio la difficoltà a rianimare il sentimento, a toglierci dalla noia che ci tormenta e che riesce nel contempo a farci provare, sotto la nostra vergognosa coltre di insensibilità, qualche insperata sensazione.

Concludendo, de Rougemont crede che nella nostra epoca si confondino due morali, oramai entrambe svuotate di senso e che da qui nasca la nostra confusione nel campo delle relazioni amorose:

“Secondo me, il presente stato di immoralità si spiega con il confuso antagonismo di due morali in seno al quale noi viviamo: di queste una è ereditata dall’ortodossia religiosa, ma non si appoggia più su una fede viva, e l’altra deriva da un’eresia la cui espressione essenzialmente lirica ci perviene del tutto profanata, e per conseguenza snaturata. […] Tutti gli adolescenti della borghesia occidentale sono educati nell’idea del matrimonio, ma al tempo stesso si trovano tuffati in un’atmosfera romantica”

La soluzione del dilemma, per de Rougemont, sta nell’amore vissuto come una scelta e non come un destino, solo chi mantiene la padronanaza di sè si può definire persona invece che marionetta nelle mani di forze che non comprende:

“Chiamerò libero un uomo che possiede se stesso. Ma l’uomo della passione, al contrario, ceca di essere posseduto, spogliato, gettato fuor di sè medesimo, nell’estasi”.

Quindi l’amore deve mantenere, necessariamente, una distanza dal fuoco della passione e trasformarsi in Agape, l’amore disinteressato ma smisurato verso il prossimo, che viene utilizzato nella teologia cristiana per indicare l’amore di Dio nei confronti dell’umanità. Per quanto sia consapevole che la scelta di condividere la propria vita con un’altra persona sia una scommessa, essa va assunta come decisione e portata con impegno fino al suo compimento, assicurando fedeltà e cura nonostante le difficoltà e le tentazioni:

“Per me, rinunciando senz’altro a qualsiasi appoggio razionalista o edonista, non parlerò che di una fedeltà osservata in virtù dell’assurdo, perchè ci si è impegnati, semplicemente, e perchè si tratta di un fatto assoluto, sul quale si fonda la persona stessa degli sposi. La prima cosa che salta all’occhio è che questa fedeltà va contro la corrente dei valori venerati oggidì da tutti. Essa rappresenta il più profondo non conformismo”.

Ai posteri l’ardua sentenza.

J. Roth – La Ribellione

La Ribellione è un romanzo scritto nel 1924, intriso del sentimento rabbioso e stupefatto che segue la Grande Guerra. Non a caso il protagonista è un reduce, Andreas Pum, che ha perso una gamba in battaglia. Ma Andreas, al contrario di molti suoi compagni non è triste né disilluso, bensì un uomo che nutre ancora un’irrazionale fiducia nella giustizia umana e divina, disprezzando coloro (i ‘pagani’) che si ribellano allo status quo:

“Se in quel momento qualcuno avesse domandato ad Andreas di definire i pagani, egli avrebbe risposto così: quelli, ad esempio, che stanno in prigione, o anche quelli che per caso non sono stati ancor acciuffati. Andreas Pum era molto contento che gli fossero venuti in mente i ‘pagani’. La parola gli bastava, risolveva i suoi assillanti interrogativi e dava risposta a numerosi enigmi. Essa, inoltre, lo esimeva dal’obbligo di continuare a rimuginare e tormentarsi nello sforzo di capire gli altri”.

Ma la vita del protagonista, d’improvviso, deraglia dai binari prestabiliti: niente più lavoro, niente più moglie, niente più speranze. Con bonaria ironia vediamo Andreas rimanere intrappolato in scene degne del miglior Kafka, teatri dell’assurdo dove le relazioni con il potere e con l’altro si configurano come condanne all’emarginazione e alla più tetra solitudine. E gli occhi del protagonista, come folgorato da una rivelazione, si aprono di colpo:

“Ahimè! Il mondo non era mutato affatto! Era sempre stato così! Solo un colpo di fortuna può far si che non ci mandino in galera. Il nostro destino è dare scandalo e inciampare nel groviglio di leggi che proliferano con arbitrio selvaggio. Le autorità sono ragni in agguato in una rete sottilissima di regolamenti, e rimanere intrappolati in quelle maglie è solo questine di tempo. […] Il governo, ce ne rendiamo conto solo adesso, non è più così lontano, né qualcosa che sta in alto sopra di noi. Ha tutte le debolezze terrene e con Dio non ha contatti di sorta. Soprattutto abbiamo visto che non è costituito da un unico potere”.

La fede di Andreas negli uomini, nella giustizia, nel governo, in Dio, si sbriciola e al suo posto rimane solo un cratere buio e profondo. Ed è lì che trova posto la consapevolezza, inizia a sgorgare da una sorgente nascosta, una fenditura nella profondità della terra, che non porta però consolazione, solo un’impotente comprensione di essere stato ingannato per quarantacinque anni:

“Forse non ero neanche un essere umano. O forse avevo il cuore malato di sonno. Perchè questo può succedere. Il cuore può dormire molto a lungo e continuare a pulsare, ma per tutto il resto essre come moto. Non pensavo mai con la mia povera testa. Perchè la natura non mi ha concesso la benedizione di un ingegno acuto e il mio debole intelletto è stato ingannato dai miei genitori, dalla scuola, dai miei insegnanti, dal signor sergente e dal signor capitano, e dai giornali che mi hanno dato da leggere”.

Andreas vede la luce solo quando si trova immerso nel buio di una cella di prigione, solo lì si rivela la realtà del mondo di fuori. Andreas allora capisce: fa parte del mondo degli uomini sconfitti, di coloro che vagano sulla terra stritolati, loro malgrado, dai circuiti ciechi e spietati dei meccanismi umani e divini. Si dichiara allora, con un’inversione completa, in un mondo senza giustizia, fiero di essere pagano:

“Aveva l’impressione che l’intento segreto degli scassinatori fosse quello di ristabilire la giustizia nel mondo con metodi violenti”

Nonostante la cupa desolazione che pervade il romanzo, il sentimento di una sconfitta certa senza via di scampo, la ribellione non è una discesa nela disperazione ma una preghiera muta, un atto di amore mancato, una supplica inascoltata verso il mondo.

Quattro tecniche di sopravvivenza quotidiana

“L’orrore, l’orrore” Sono le parole che il famigerato Kurtz pronuncia a fior di labbra prima di morire nel celebre film Apocalypse Now. Nel discorso che tiene poco prima dice anche: “L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore”.

Ora, amici o meno, si tratta sicuramente di qualcosa che nelle nostre miserabili vite dovremmo prima o poi affrontare. Non conta come lo nominiamo: solitudine, indifferenza, vuoto, insignificanza, violenza, ansia, malattia, morte, ecc. Sappiamo che è lì in agguato e che dobbiamo affrontarlo. Giusto? No, sbagliato. Perchè nel corso di millenni di evoluzione umana abbiamo messo a punto numerose tecniche per sopravvivere in una beata incoscienza, una benefica autolimitazione della nostra capacità intellettiva. Ci accechiamo volontariamente per poter sopravvivere in un modo che sia minimamente decente. Questa è la teoria esposta da P. W. Zapffe nel suo L’ultimo messia, un classico del pensiero pessimista (o realista, a seconda delle opinioni).
Senza andare per le lunghe, Zappfe sostiene che la vita nella sua nuda essenza è un carico di dolore e sofferenza inutile, punteggiato da pochi istanti di piacere che ci danno la forza per tirare avanti. Quindi le persone preferiscono non farsi troppe domande filosofico-esistenziali, per puro inconscio istinto di sopravvivenza.

Descrive anche quattro meccanismi difensivi che quasi tutta l’umanità mette in campo per tirare avanti:

1. Isolamento. Nel senso di nascondere i problemi reali sotto al tappeto della coscienza: le persone evitano sia di pensare che di parlare dei problemi filosofico-esistenziali. Meglio parlare di calcio o motori;

2. Ancoraggio. Le persone si attaccano con forza alle proprie certezze, per fare gruppo e sentirsi al sicuro, siano esse credi religiosi, ideologie politiche, sottoculture, o anche illusioni prettamente personali (come l’ideale di amore). Incredibilmente funziona ancora;

3. Distrazione. Le persone cercano in tutti i modi di occupare il loro tempo e i loro pensieri: si dedicano ad attività materiali e/o superficiali per distrarsi dai pensieri esistenziali. Viva le serie tv;

4. Sublimazione. Le poche persone che guardano in faccia l’orrore e lo esorcizzano, per quanto possibile, in modo estetico/artistico. Per esempio scrivendo su un blog.

 

Questo è quanto. La soluzione finale, per Zappfe, è l’antinatalismo: smettere di fare figli, portatori sani di futura disperazione, ed estinguersi come specie.
Voi come vi difendete dall’orrore? Lo vedete? Se avete soluzioni, vi prego, fatevi avanti.

L’ordine è qualcosa di artificioso; il naturale è il caos.
(Arthur Schnitzler)

 

La promessa è un contro-giallo che vuole smontare i meccanismi perfetti dei gialli tradizionali, che nega la loro geometria studiata a tavolino, la demolizione dell’edificio razionale in cui lo scrittore modella e modula il male e il bene inserendoli in una serie di scatole cinesi che alla fine si apriranno sotto le indagini attente ed accurate dell’investigatore e magicamente sveleranno il loro interno, pulito e senza ombre.
Invece, ci dice Durrenmatt, la vita si svolge in maniera diversa, la logica non la rappresenta del tutto ed è necessario fare i conti con l’irrazionale, con l’assurdo che si annida nei meccanismi del mondo e nei recessi oscuri della stessa mente umana:

“Siamo uomini, dobbiamo tenerne conto, armarci contro questa realtà, e soprattutto avere ben chiaro in mente che riusciremo a evitare il naufragio nell’assurdo, che per forza di cose risulta sempre più netto e schiacciante, e a costruirci su questa terra un’esistenza abbastanza confortevole, solo incorporandolo tacitamente nel nostro pensiero. La nostra ragione rischiara il mondo non più dello stretto necessario”.

Quindi non c’è consolazione nel mondo di Durrenmatt. E non ci sono certezze. Ci sono i fatti e le loro interpretazioni più o meno intuitive, più o meno possibili, ma mai dimostrabili con sicurezza.
La promessa che l’ispettore Matthei fa alla madre della ragazza uccisa è l’interruttore che attiva un congegno, e parte una rincorsa tragica verso la Verità, che però non si trova da nessuna parte, perchè, molto probabilmente, non esiste, e anche se esistesse non sarebbe raggiungibile dalla mente umana. E’ all’interno di questa spirale che la logica si spezza e la tenacia non basta.
E il male, il nome che diamo all’innominabile contro-logica del mondo, trionfa. A meno che non sia servita in tavola una rassicurante illusione:

“Non mi riferisco solo alla circostanza che tutti i vostri criminali trovano la punizione che si meritano. Perchè questa bella favola è senza dubbio moralemnte necessaria. Appartiene alle menzogne ormai consacrate, come pure il pio detto che il delitto non paga – mentre basta semplicemente considerare la società umana per capire dove stia la verità a questo proposito – ma lasciamo perdere tutto questo, se non altro per un principio puramente commerciale, dato che ogni pubblico ed ogni contribuente ha diritto ai suoi eroi e al suo happy-end”

E il tutto è scritto in una prosa impeccabile e scorrevole, che avvolge nelle sue spire, e ti accompagna alla fine del viaggio (in macchina come i due protagonisti?) con inquietudine e piacere.

T. N. Hahn – Vita di Siddharta il Buddha

Questo libro narra la vita di Siddharta Gautama, un uomo come noi, che attraverso una ricerca costante è riuscito a raggiungere uno stato di gioia ed equanimità. Annichilito dalla visione della sofferenza che tocca in sorte ad ogni essere umano, quest’uomo ha speso la sua vita nel cercare tecniche e pratiche per ridurre il dolore e portare la serenità nel cuore dell’umanità. Lodevole, oserei dire. Questo narra il libro, quasi un vangelo laico, senza interventi divini nè miracoli.
Il Buddha, ossia il Risvegliato, sapeva bene che l’orrore è connaturato alla natura umana e non ne faceva certo mistero. Circonfuso di consapevolezza, insieme predicava l’accettazione di ciò che siamo e la spinta verso il miglioramento:

“Bhikkhu” aveva detto il Buddha “i vostri occhi sono un profondo oceano in cui si nascondono mostrimarini, vortici e correnti pericolose. Se non mantenete la presenza mentale, mostri marini, vortici e correnti attaccheranno la vostra barca e la affonderanno. Anche le vostre orecchie, il naso, la lingua, il corpo e la mente sono profondi oceani dove sono nascosti mostri marini”.

Qui si parla di presenza mentale, di concentrazione, ossia vivere ed accettare il momento, qualunque esso sia, senza discriminazione. Questa è la chiave di volta per varcare le porte della liberazione, per riuscire a padroneggiare i propri sensi ed accedere alla gioia e alla serenità:

“Bhikkhu, vi esporrò la vera indipendenza e la migliore delle solitudini. Indipendente è colui che dimora nella presenza mentale. Egli è consapevole di quanto avviene nel momento presente, di quanto accade nel corpo, nelle sensazioni, nella mente e negli oggetti mentali. Egli sa osservare in profondità le cose nel momento presente. Non insegue il passato e non si perde nel futuro, perchè il passato non esiste più e il futuro non è ancora arrivato. La vita è soltanto nel momento presente. Perdendo il momento presente, perdiamo la vita. Ecco la migliore delle solitudini”.

Perchè la concentrazione porta alla comprensione. La comprensione porta alla consapevolezza. La consapevolezza porta alla visione profonda. Ossia a vedere la realtà così com’è nella sua interezza, senza rinchiuderla in schemi concettuali o illusori.
E non si tratta di una via austera segnata da privazioni e improntata alla sola conoscenza. La Via del Buddha è la via della pratica costante e dell’amore. Quest’ultimo è anzi uno dei due pilastri, insieme alla saggezza, su cui si fonda l’intero insegnamento. Il paragrafo sull’amore andrebbe riportato nella sua interezza, tanto è significativo. Un giorno un re andò dal Buddha a chiedere delucidazioni sull’amore e il suo rapporto con la sofferenza:

“Maestro Gautama, c’è chi afferma che tu esorti a non amare. Ti attribuiscono il detto che più si ama più si soffre. Capisco che in questo c’è una certa verità, ma non riesco ad accettarlo del tutto. Senza amore, la vita si svuota di senso. Ti prego di aiutarmi a comprendere.”
[…] Dobbiamo considerare la natura del nostro amore”, rispose il Buddha. “L’amore deve portare pace e felicità a coloro che amiamo. Se nutriamo un amore fondato sul desiderio egoistico di possedere gli altri, non daremo loro né pace né felicità. Al contrario, li faremo sentire in trappola. E’ un amore non diverso da una prigione. Se la persona che amiamo è infelice proprio a causa del nostro amore, vorrà liberarsene. Non accetterà la prigione del nostro amore. E l’amore si trasformerà a poco a poco in rabbia e in odio.
[…] “Maestà, nella Via dell’Illuminazione non c’è amore senza comprensione. L’amore è comprensione. Senza comprendere, è impossibile amare. Se marito e moglie non si comprendono, non si possono amare. Se fratello e sorella non si comprendono, non si possono amare. Se genitori e figli non si comprendono, non si possono amare. Se desideri la felicità di coloro che ami, devi imparare a comprenderne i dolori e le aspirazioni. Comprendendoli, saprai alleviarne i dolori e aiutarli a realizzare le loro aspirazioni. Questo è vero amore. Se invece vuoi soltanto che coloro che ami si adeguino alle tue idee senza sforzarti di conoscere i loro bisogni, non è vero amore. E’ solo desiderio di possedere l’altro e di appagare i tuoi bisogni, che in questo modo non saranno mai soddisfatti”.

Ho poi scoperto con piacere che il Buddha non era esente dal consigliare precise prassi politiche e sociali, in senso quasi rivoluzionario sebbene nonviolento:

Lo incoraggiò a riformare l’amministrazione della giustizia e l’ordinamento economico del paese. Pene corporali, tortura, imprigionamento ed esecuzioni non sono mezzi efficaci per contrastare il crimine. Crimine e violenza sono le conseguenze naturali della fame e della povertà. Il modo migliore pert fare il bene del popolo e garantire la sicurezza è un ordinamento economico sano. […] Tutti devono avere l’opportunità di scegliere la propria occupazione e bisogna organizzare dei corsi di formazione. Un ordinamento economico giusto, concluse il Buddha, deve fondarsi sulla partecipazione volontaria. (Kutadanta Sutra)

Quindi è vero che la vita è sofferenza? Si, questa è la Prima Nobile Verità. Ma la bella notizia è che vi sono altre Tre Nobili Verità che insegnano a trascenderla seguendo un cammino di pace e liberazione. Chissà.

D. J. Poissant – Il paradiso degli animali

“Sotto l’albero cadono / sconfitti / si rialzano / si rimettono in cammino”

James L. Dickey

Come dice la quarta di copertina:

“I racconti di David James Poissant parlano di relazioni. Genitori e figli, mariti e mogli, amanti o amici, i protagonisti di queste storie sono ritratti in un momento decisivo della loro vita quando, per la forza brutale dell’amore, si trovano sulla soglia di un precipizio, spinti da decisioni che loro stessi hanno preso”.

Verissimo, queste brevi storie (sono sedici) parlano di relazioni. E della loro estrema difficoltà, della solita incomunicabilità che sembra inceppare ogni autentica ed onesta comunicazione fra esseri umani. Ci sono sempre incomprensioni, vengono sempre fatti errori, c’è sempre la realtà che non corrisponde alle aspettative. Come è chiarissimo fin dall’incipit del primo racconto, L’uomo lucertola:

“L’anno scorso mio figlio ha sfondato la finestra del soggiorno. L’avevo spinto io. Non ricordo esattamente com’era successo. Ricordo di essere entrato in sala. Ricordo di aver visto Jack con la bocca sulla bocca di un altro ragazzo e le mani che si muovevano rapide sul suo inguine”

E questi racconti parlano anche di morte. Non della Morte con la M maiuscola, bensì di una morte ben determinata: muoiono padri, muoiono mogli, muoiono fratelli, muoiono figli grandi e figli piccoli. Qualcuno non muore, ma vorrebbe morire, o sta morendo. Non una raccolta di racconti ma una carneficina, insomma. Muore anche la speranza e muoiono le relazioni. Soprattutto la speranza, e la forza di credere, cercata ma sempre assente:

“Se speravi intensamente in qualcosa, potevi farla succedere. Ci aveva creduto, una volta. Voleva crederci ancora. Chiuse gli occhi, pieno di speranza – non era mai stato così vicino alla preghiera.”

E ancora:

“Aveva cercato di ritrovare la via, ma se credere è una battaglia in salita, imparare di nuovo a credere è una guerra, fuoco di moschetti e baionette in ceca di sangue”.

Poi c’è dolore, assenza, solitudine, frustrazione. Nessuna via di scampo: gli animali umani protagonisti di ogni racconto sono “sull’orlo del burrone, a ciascuno viene chiesto di fare una scelta: saltare o tornare indietro”.
Ma non c’è tragedia, nessuno scontro con divinità o tormentosi incesti inconsapevoli: c’è solo l’umanità, la quotidianità dell’essere umano. L’autopsia dei sentimenti e delle emozioni.

A. Schopenhauer – La saggezza della vita

Dici Schopenhauer e automaticamente pensi: pessimista, nichilista, pesantezza.
E invece questo libro è uno splendido inno all’indipendenza, uno sprone verso la ricerca delle proprie peculiarità interiori, un incitamento al loro sviluppo, senza curarsi delle opinioni del mondo esterno. Qui il filosofo, in linea con le idee dell’opera principale, spregia ogni futile ricerca del piacere fine a sè stesso, in quanto necessariamente legato alla sofferenza (come due facce della stessa medaglia), e indica la via per la saggezza e la serenità: coltivare ed esprimere le nostre potenzialità come singolo ed irripetibile essere umano, abbandonare l’egoismo dei piaceri materiali per aprirsi il più possibile alla bellezza e all’altro, lottare contro la corrente meschina della società per divenire un essere libero e completo nonostante il dolore e la solitudine, conoscere sè stessi.

Perchè alla fine, quando saremo vecchi, forse davvero non conterà il numero di smartphone e di partner che abbiamo avuto, il numero di concerti ascoltati e viaggi turistici realizzati, ma che tipo di persone saremo diventate e che cosa saremo stati capaci di donare agli altri e al mondo (anche se non si meritano un cax).

Caposaldo della filosofia di Schopenhauer è l’indipendenza, la radicale autonomia. La salvezza, identificata con la serenità d’animo, si può raggiungere solo cercando quel qualcosa dentro di sè, in silenzio:

“Ciò che un uomo è di per sè, ciò che lo assiste nei momenti di solitudine, e che nessuno potrebbe dargli o toglierli, è evidentemente più essenziale per lui di tutto quello che egli può possedere materialmente o che può avere importanza agli occhi altrui”

E ancora, attivare qual processo di autoconoscenza che può portarci alla liberazione:

“L’unica cosa che possiamo fare è di impiegare la personalità, così come ci è stata donata, a nostro maggior profitto; ciò significa coltivare unicamente le aspirazioni che le si confanno, seguire l’evoluzione naturale che le è appropiata, evitandone qualunque altra, e scegliere quindi lo stato, l’occupazione e il genere di vita che più le convengono”.

Perchè non esiste nient’altro di vero, il piacere tanto agognato non è altro che una rosa avvizzata sul petto della vita:

“Quello che turba e rende infelici gli ultimi anni della giovinezza, questa prima metà della vita così bella rispetto a quella matura, è la caccia alla felicità intrapresa nell’assoluta convinzione che essa esista realmente in questa vita. Ma questa speranza rimane sempre delusa generando a sua volta lo scontento”.

E ancora:

“Se dunque la prima metà della vita è caratterizzata da un’aspirazione insaziabile alla felicità, l’altra metà è determinata dal timore della sventura. A quel punto infatti si è arrivati ormai a capire che ogni bene è chimerico e ogni dolore, invece, è reale e gli uomini, o almeno, quelli di buon senso, non cercano più il piacere ma semplicemente uno stato libero dai dolori e dalle inquietudini”.

A conti fatti tutto sta nel capire e accettare la prima nobile verità: che la vita è sofferenza. Poi seguire i consigli del filosofo per tenerla alla larga.

F. Durrenmatt – Il minotauro

Durrenmatt, nelle poche ma intense pagine che compongono Il minotauro, reinterpreta a suo modo la mitologia, rovesciandone la prospettiva. Se il mito descrive il minotauro come un essere irrazionale, un animale violento che segue il proprio istinto a discapito della ragione, il cui unico scopo è uccidere e cibarsi, nell’ottica di Durrenmatt diventa un essere innocente, una vittima sacrificale che espia una colpa antecedente alla sua nascita, che paga con la vita il suo essere diverso, non assimilabile, unico nel suo genere.

L’assenza di raziocinio impedisce all’essere mezzo uomo e mezzo toro di comprendere a fondo quanto lo circonda, egli vorrebbe innanzitutto danzare ebbro di gioia con gli altri esseri simili a lui, irreali riflessi di specchi, e con i fragili esseri umani che incontra nel labirinto. Al principio egli semplicemente crede e ha fiducia, e in questo credere c’è un’ingenuità disarmante, ma ben presto si accorge che non esiste creatura reale simile a lui, solo fredde superfici levigate, e che non è possibile nessuna condivisione nè comprensione con chi è diverso da lui.

“Avvertì che non esistevano tanti minotauri, ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, e questo solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto fra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito;”

Quindi l’animale percepisce, non tramite concetti, ma visceralmente, con istinto d’animale, di essere solo, unico, diverso. L’unica scelta che rimane, rinchiusi per sempre in un labirinto ostile ed incomprensibile, persi in un mondo che “dichiara colpevoli gli innocenti e le cui leggi sono ignote”, è quella di abbandonare i propri sogni e combattere. Uccidere o essere ucciso. Farsi carnefice e morire.

“e quando l’avvertì, come percezione senza comprensione, come un’illuminazione senza conoscenza, non come una nozione umana fatta di concetti ma come nozione di minotauro fatta d’immagini e di sensazioni, crollò a terra, e allorché giacque, raggomitolato com’era stato raggomitolato nel corpo di Pasifae, il minotauro sognò di essere un uomo. Sognò un linguaggio, sognò fratellanza, sognò amicizia, sognò sicurezza, sognò amore, vicinanza, calore, e contemporaneamente seppe, sognando, di essere un anormale cui non sarebbe mai stato concesso un linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai amore, mai vicinanza, mai calore, sognò come gli esseri umani sognano degli dei, con tristezza d’uomo l’uomo, con tristezza d’animale il minotauro”.

Ed è ironico come sia proprio l’illusione ultima, quella più umana, la vana speranza di aver trovato un essere simile a lui, che invece altri non è che Perseo travestito, a dare insieme la più alta ebbrezza di gioia e il più alto tradimento.

“Il minotauro cominciò a danzare. Danzò la danza della fratellanza, la danza dell’amicizia, la danza della sicurezza, la danza dell’amore, la danza della vicinanza, la danza del calore. Danzò la sua felicità, danzò la sua dualità, danzò la sua liberazione, danzò il tramonto del labirinto, lo sprofondare fragoroso di pareti e specchi nella terra, danzò l’amicizia tra minotauri, animali, uomini e dei, il filo rosso di lana, avvolto fra le corna, danzò attorno all’altro minotauro che tese il filo rosso di lana, trasse il pugnale dalla guaina di pelo senza che il minotauro se ne accorgesse, e le immagini dell’uno danzarono attorno alle immagini dell’altro che tendevano un filo rosso di lana e traevano un pugnale dalla guaina di pelo, e quando il minotauro si gettò fra le braccia aperte dell’altro, confidando di aver trovato un amico, un essere come lui, e quando le sue immagini si gettarono fra le braccia delle immagini dell’altro, l’altro colpì e colpirono le sue immagini, l’altro piantò con perizia tale pugnale fra le spalle che il minotauro era già morto quando s’accasciò a terra”.

Ecco, sembra dirci Durrenmatt in queste trenta pagine, come gli innocenti, uomini ed animali, si trasformano in bestie.