The Art Life di di Jon Nguyen, Rick Barnes, Olivia Neergaard-Holm è un documentario di un paio d’ore che ripercorre la prima parte della vita di David Lynch. Unica voce narrante dell’opera è lo stesso protagonista, che grazie a una serie di filmati e di fotografie d’archivio, ripercorre le principali tappe della sua vita: dalla nascita, attraverso il primo grande amore per la pittura, fino alla produzione dei cortometraggi, The Alphabet (1968) e The Grandmother (1970), che gli hanno spianato la strada verso il mondo del cinema.
Sarò breve. Il primo momento che intendo sottolineare, quella che mi è sembrata un’agnizione personale del nostro regista, è quando si rende improvvisamente conto che la vita, essendo la poca cosa che tutti sappiamo, dovrebbe essere semplicemente spesa, senza tragedie inutili, a bere caffè, fumare sigarette, dipingere. Tutto qua. Questo è vivere. Vincere l’orrore attraverso l’arte.
Non per niente nel film in questione sono proprio i dipinti, frutto dell’immaginario chiaramente disturbato di Lynch, a rimanere impressi nella mente dello spettatore: teste, insetti, figure inquietanti, fluidi sparsi, corpi da cui fuoriescono cose, donne nude, figure che chiedono aiuto come se volessero fuggire dalle tele, immagini indecifrabili accompagnate spesso da parole chiave come “Goodbye”, “Darkness”, “Help”.
Sulla scia della parola “disturbato” arriviamo al secondo momento filmico che voglio sottolineare. Fantastico nel suo folle candore.
Il giovane Lynch, ventenne e per la prima volta con una casa propria, riempe la cantina di animali morti, per seguire in ogni suo aspetto il meraviglioso processo di decomposizione, immagino con tutto il corollario di fetore e insetti vari. Ecco, Lynch pensa bene di condividere il tutto con suo padre, che, chissà perchè, si prende male. La chiusa dell’aneddoto è a mio avviso fenomenale, in completa ingenuità Lynch ci dice che suo padre era in errore perchè non era riuscito a comprendere. Il povero padre pensava che il figlio presentasse disturbi emotivi e psicologici, mentre invece, ci dice la voce fuoricampo, “stavo solo facendo dei semplici esperimenti”. Si, come no.
Il punto chiave è che la propria vita andrebbe spesa assecondando le predisposizioni della nostra natura e non i canoni imposti dalla società. Ad ogni costo. Anche se la strada per il successo è lastricata di follia e animali morti.
Per il resto il film è fatto bene e piacevole. Beccatevi il trailer: