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A. Gorz – Lettera a D.

Un biglietto posato accanto alla porta di casa: “Avvisate la gendarmeria”. Saranno trovati lì, stesi uno accanto all’altro, sul letto. Ma prima del definitivo commiato, lui le scrive una lettera che ripercorre gli snodi fondamentali della loro vita insieme.
Lettera a D. è un esplicito e appassionato tributo. Un tributo che Gorz, oramai anziano, rende a sua moglie e che finisce per diventare una testimonianza dell’Amore, con la A maiuscola. E’ chiaro fin dall’incipit, folgorante:

“Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quarantacinque chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo assieme e ti amo più che mai. Porto di nuovo in fondo al petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio riempie”

Gorz non trascura nulla: dal primo incontro (lei, modella bellissima) alle opposizioni della madre di lui, alle sue stesse paure, al matrimonio, alla povertà, al lavoro come scrittore e giornalista. Tutto con lei sempre lì a sostenerlo. A volte sullo sfondo, altre in primo piano, ma sempre lì.
Un incontro sentito, pur nella profonda diversità di idee, provenienze e sentimenti, come irresistibile:

“Potevamo essere profondamente dissimili, non di meno sentivo che qualcosa di fondamentale ci era comune, una specie di ferita originaria – poc’anzi parlavo di “esperienza fondatrice”: l’esperienza dell’insicurezza. La cui natura non era la stessa in me e in te. Poco importa: per te come per me significava che noi non avevamo un posto sicuro nel mondo. Non avremmo avuto che quello che ci saremmo costruito”

Ma, pur con tutto questo, come è possibile spendere sessant’anni della propria vita insieme alla stessa persona? Se lo chiede anche l’autore, ma la risposta di D. è senza scampo:

“Dicevo pure: «Che cosa ci prova che tra dieci o vent’anni il nostro patto per la vita corrisponderà al desiderio di ciò che saremo diventati?». La tua risposta non si poteva parare: «Se ti unisci con qualcuno per la vita, mettete le vostre vite in comune e tralasciate di fare ciò che divide o contrasta la vostra unione. La costruzione della vostra coppia è il vostro progetto comune, non avrete mai finito di rafforzarla, di adattarla, di riorientarla in funzione delle situazioni mutevoli. Noi saremo ciò che faremo insieme»”

Ma non è sempre stato tutto rose e fiori. Gorz ha il coraggio e l’onestà, almeno in parte, di affrontare le sue mancanze, i suoi dubbi, le difficoltà. Rileggendo i suoi vecchi libri, l’autore si è reso conto di non aver reso giuastizia alla sua compagna di vita, di aver dato al mondo un’idea fuorviante di lei, sbagliata, incolore, debole. Forse perchè:

“Essere appassionatamente innamorati per la prima volta, essere ricambiati, era a quanto pare troppo banale, troppo privato, troppo comune: non era una materia adatta a farmi accedere all’universale. Un amore naufragato, impossibile, al contrario diventa della nobile letteratura. Mi sento a mio agio nell’estetica della sconfitta e dell’annientamento, non in quella del successo e dell’affermazione”

Fino poi ad arrivare al dolore più grande della loro vita insieme: il male degenerativo che affligge sua moglie, raccontanto con sofferente tenerezza.
Ma le ombre si estendono anche alla vita personale dell’autore, spesso sentita come inesistente, come vissuta da qualcun altro, come sprecata:

“Ero arrivato all’età in cui ci si domanda cosa si è fatto della propria vita, cose se ne sarebbe voluto fare. Avevo l’impressione di non aver vissuto la mia vita, di averla sempre osservata a distanza, di non aver sviluppato che un solo lato di me stesso e di essere povero in quanto persona. Tu eri ed eri sempre stata più ricca di me. Ti sei schiusa in tutte le tue dimensioni. Eri a tuo agio nella tua vita; mentre io avevo sempre avuto fretta di passare al compito seguente, come se la nostra vita non dovesse cominciare veramente che più tardi”

Lettera a D. è asciutto, onesto, commuovente senza essere patetico.

M. Kundera – L’arte del romanzo

“La sola ragion d’essere di un romanzo è scoprire quello che solo un romanzo può scoprire. Il romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale. La conoscenza è la sola morale del romanzo”

Kundera per prima cosa ripercorre la genesi del romanzo, o meglio la storia del suo orizzonte metafisico, da Cervantes a Kafka, per arrivare ad affermare che la Verità Totalitaria è antitetica al romanzo, la cui essenza è dubbio, esplorazione (dall’orizzonte aperto del mondo di Cerventas, al microcosmo familiare di Flaubert, al mondo interiore di Kafka…). Perchè:

“Il romanzo non indaga la realtà ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace”

Kundera individua poi tre punti fondamentali per riformare il romanzo:
1. Lo sfrondamento: per abbracciare la complessità del moderno senza perdere la chiarezza architettonica
2. Un’arte del saggio specificatamente romanzesca
3. Un’arte del contrappunto capace di fondere varie voci: racconto, filosofia, sogno…
Assume poi un’importanza centrale nella riflessione dell’autore l’idea del tema. Non si tratta semplicemente di descrivere il susseguirsi delle azioni che costruiscono una storia, ma di avere sempre presente, e riuscire a comunicare, il loro significato:

“Da sempre costruisco i miei romanzi su due livelli: al primo livello, creo la storia romanzesca; al di sopra di questa sviluppo a lcuni temi. I temi vengono ininterrottamente elaborati nella e dalla storia romanzesca. Laddove il romanzo abbandona i suoi temi e si accontenta di raccontare la storia, diventa piatto. Un tema, invece, può essere sviluppato da solo, al di fuori della storia. Questo modo di affrontare
un tema io lo chiamo digressione”

Il tema si configura quindi come cuore pulsante attorno a cui si affollano le domande, legate a parole chiave di particolare importanza:

“Un tema è un interrogativo esistenziale, sempre più mi rendo conto che un tale interrogativo è in definitiva l’esame di parole particolari, di parole-tema”

Per svolgere la riflessione all’interno del romanzo senza appesantirlo, Kundera individua tre modalità:
1. L’aforisma
2. La litania
3. La metafora

In conclusione questo libro, una raccolta di sette saggi, è un’appassionata difesa di una certa idea di romanzo: quello legato all’esplorazione delle potenzialità dell’essere e che come tale deve sempre produrre una scoperta nel lettore. Un libro assolutamente da leggere per chi ama la letteratura come mezzo di conoscenza, come scoperta del mondo attraverso il disvelamento di altre prospettive.

J. Roth – La Ribellione

La Ribellione è un romanzo scritto nel 1924, intriso del sentimento rabbioso e stupefatto che segue la Grande Guerra. Non a caso il protagonista è un reduce, Andreas Pum, che ha perso una gamba in battaglia. Ma Andreas, al contrario di molti suoi compagni non è triste né disilluso, bensì un uomo che nutre ancora un’irrazionale fiducia nella giustizia umana e divina, disprezzando coloro (i ‘pagani’) che si ribellano allo status quo:

“Se in quel momento qualcuno avesse domandato ad Andreas di definire i pagani, egli avrebbe risposto così: quelli, ad esempio, che stanno in prigione, o anche quelli che per caso non sono stati ancor acciuffati. Andreas Pum era molto contento che gli fossero venuti in mente i ‘pagani’. La parola gli bastava, risolveva i suoi assillanti interrogativi e dava risposta a numerosi enigmi. Essa, inoltre, lo esimeva dal’obbligo di continuare a rimuginare e tormentarsi nello sforzo di capire gli altri”.

Ma la vita del protagonista, d’improvviso, deraglia dai binari prestabiliti: niente più lavoro, niente più moglie, niente più speranze. Con bonaria ironia vediamo Andreas rimanere intrappolato in scene degne del miglior Kafka, teatri dell’assurdo dove le relazioni con il potere e con l’altro si configurano come condanne all’emarginazione e alla più tetra solitudine. E gli occhi del protagonista, come folgorato da una rivelazione, si aprono di colpo:

“Ahimè! Il mondo non era mutato affatto! Era sempre stato così! Solo un colpo di fortuna può far si che non ci mandino in galera. Il nostro destino è dare scandalo e inciampare nel groviglio di leggi che proliferano con arbitrio selvaggio. Le autorità sono ragni in agguato in una rete sottilissima di regolamenti, e rimanere intrappolati in quelle maglie è solo questine di tempo. […] Il governo, ce ne rendiamo conto solo adesso, non è più così lontano, né qualcosa che sta in alto sopra di noi. Ha tutte le debolezze terrene e con Dio non ha contatti di sorta. Soprattutto abbiamo visto che non è costituito da un unico potere”.

La fede di Andreas negli uomini, nella giustizia, nel governo, in Dio, si sbriciola e al suo posto rimane solo un cratere buio e profondo. Ed è lì che trova posto la consapevolezza, inizia a sgorgare da una sorgente nascosta, una fenditura nella profondità della terra, che non porta però consolazione, solo un’impotente comprensione di essere stato ingannato per quarantacinque anni:

“Forse non ero neanche un essere umano. O forse avevo il cuore malato di sonno. Perchè questo può succedere. Il cuore può dormire molto a lungo e continuare a pulsare, ma per tutto il resto essre come moto. Non pensavo mai con la mia povera testa. Perchè la natura non mi ha concesso la benedizione di un ingegno acuto e il mio debole intelletto è stato ingannato dai miei genitori, dalla scuola, dai miei insegnanti, dal signor sergente e dal signor capitano, e dai giornali che mi hanno dato da leggere”.

Andreas vede la luce solo quando si trova immerso nel buio di una cella di prigione, solo lì si rivela la realtà del mondo di fuori. Andreas allora capisce: fa parte del mondo degli uomini sconfitti, di coloro che vagano sulla terra stritolati, loro malgrado, dai circuiti ciechi e spietati dei meccanismi umani e divini. Si dichiara allora, con un’inversione completa, in un mondo senza giustizia, fiero di essere pagano:

“Aveva l’impressione che l’intento segreto degli scassinatori fosse quello di ristabilire la giustizia nel mondo con metodi violenti”

Nonostante la cupa desolazione che pervade il romanzo, il sentimento di una sconfitta certa senza via di scampo, la ribellione non è una discesa nela disperazione ma una preghiera muta, un atto di amore mancato, una supplica inascoltata verso il mondo.

D. J. Poissant – Il paradiso degli animali

“Sotto l’albero cadono / sconfitti / si rialzano / si rimettono in cammino”

James L. Dickey

Come dice la quarta di copertina:

“I racconti di David James Poissant parlano di relazioni. Genitori e figli, mariti e mogli, amanti o amici, i protagonisti di queste storie sono ritratti in un momento decisivo della loro vita quando, per la forza brutale dell’amore, si trovano sulla soglia di un precipizio, spinti da decisioni che loro stessi hanno preso”.

Verissimo, queste brevi storie (sono sedici) parlano di relazioni. E della loro estrema difficoltà, della solita incomunicabilità che sembra inceppare ogni autentica ed onesta comunicazione fra esseri umani. Ci sono sempre incomprensioni, vengono sempre fatti errori, c’è sempre la realtà che non corrisponde alle aspettative. Come è chiarissimo fin dall’incipit del primo racconto, L’uomo lucertola:

“L’anno scorso mio figlio ha sfondato la finestra del soggiorno. L’avevo spinto io. Non ricordo esattamente com’era successo. Ricordo di essere entrato in sala. Ricordo di aver visto Jack con la bocca sulla bocca di un altro ragazzo e le mani che si muovevano rapide sul suo inguine”

E questi racconti parlano anche di morte. Non della Morte con la M maiuscola, bensì di una morte ben determinata: muoiono padri, muoiono mogli, muoiono fratelli, muoiono figli grandi e figli piccoli. Qualcuno non muore, ma vorrebbe morire, o sta morendo. Non una raccolta di racconti ma una carneficina, insomma. Muore anche la speranza e muoiono le relazioni. Soprattutto la speranza, e la forza di credere, cercata ma sempre assente:

“Se speravi intensamente in qualcosa, potevi farla succedere. Ci aveva creduto, una volta. Voleva crederci ancora. Chiuse gli occhi, pieno di speranza – non era mai stato così vicino alla preghiera.”

E ancora:

“Aveva cercato di ritrovare la via, ma se credere è una battaglia in salita, imparare di nuovo a credere è una guerra, fuoco di moschetti e baionette in ceca di sangue”.

Poi c’è dolore, assenza, solitudine, frustrazione. Nessuna via di scampo: gli animali umani protagonisti di ogni racconto sono “sull’orlo del burrone, a ciascuno viene chiesto di fare una scelta: saltare o tornare indietro”.
Ma non c’è tragedia, nessuno scontro con divinità o tormentosi incesti inconsapevoli: c’è solo l’umanità, la quotidianità dell’essere umano. L’autopsia dei sentimenti e delle emozioni.

F. Durrenmatt – Il minotauro

Durrenmatt, nelle poche ma intense pagine che compongono Il minotauro, reinterpreta a suo modo la mitologia, rovesciandone la prospettiva. Se il mito descrive il minotauro come un essere irrazionale, un animale violento che segue il proprio istinto a discapito della ragione, il cui unico scopo è uccidere e cibarsi, nell’ottica di Durrenmatt diventa un essere innocente, una vittima sacrificale che espia una colpa antecedente alla sua nascita, che paga con la vita il suo essere diverso, non assimilabile, unico nel suo genere.

L’assenza di raziocinio impedisce all’essere mezzo uomo e mezzo toro di comprendere a fondo quanto lo circonda, egli vorrebbe innanzitutto danzare ebbro di gioia con gli altri esseri simili a lui, irreali riflessi di specchi, e con i fragili esseri umani che incontra nel labirinto. Al principio egli semplicemente crede e ha fiducia, e in questo credere c’è un’ingenuità disarmante, ma ben presto si accorge che non esiste creatura reale simile a lui, solo fredde superfici levigate, e che non è possibile nessuna condivisione nè comprensione con chi è diverso da lui.

“Avvertì che non esistevano tanti minotauri, ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, e questo solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto fra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito;”

Quindi l’animale percepisce, non tramite concetti, ma visceralmente, con istinto d’animale, di essere solo, unico, diverso. L’unica scelta che rimane, rinchiusi per sempre in un labirinto ostile ed incomprensibile, persi in un mondo che “dichiara colpevoli gli innocenti e le cui leggi sono ignote”, è quella di abbandonare i propri sogni e combattere. Uccidere o essere ucciso. Farsi carnefice e morire.

“e quando l’avvertì, come percezione senza comprensione, come un’illuminazione senza conoscenza, non come una nozione umana fatta di concetti ma come nozione di minotauro fatta d’immagini e di sensazioni, crollò a terra, e allorché giacque, raggomitolato com’era stato raggomitolato nel corpo di Pasifae, il minotauro sognò di essere un uomo. Sognò un linguaggio, sognò fratellanza, sognò amicizia, sognò sicurezza, sognò amore, vicinanza, calore, e contemporaneamente seppe, sognando, di essere un anormale cui non sarebbe mai stato concesso un linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai amore, mai vicinanza, mai calore, sognò come gli esseri umani sognano degli dei, con tristezza d’uomo l’uomo, con tristezza d’animale il minotauro”.

Ed è ironico come sia proprio l’illusione ultima, quella più umana, la vana speranza di aver trovato un essere simile a lui, che invece altri non è che Perseo travestito, a dare insieme la più alta ebbrezza di gioia e il più alto tradimento.

“Il minotauro cominciò a danzare. Danzò la danza della fratellanza, la danza dell’amicizia, la danza della sicurezza, la danza dell’amore, la danza della vicinanza, la danza del calore. Danzò la sua felicità, danzò la sua dualità, danzò la sua liberazione, danzò il tramonto del labirinto, lo sprofondare fragoroso di pareti e specchi nella terra, danzò l’amicizia tra minotauri, animali, uomini e dei, il filo rosso di lana, avvolto fra le corna, danzò attorno all’altro minotauro che tese il filo rosso di lana, trasse il pugnale dalla guaina di pelo senza che il minotauro se ne accorgesse, e le immagini dell’uno danzarono attorno alle immagini dell’altro che tendevano un filo rosso di lana e traevano un pugnale dalla guaina di pelo, e quando il minotauro si gettò fra le braccia aperte dell’altro, confidando di aver trovato un amico, un essere come lui, e quando le sue immagini si gettarono fra le braccia delle immagini dell’altro, l’altro colpì e colpirono le sue immagini, l’altro piantò con perizia tale pugnale fra le spalle che il minotauro era già morto quando s’accasciò a terra”.

Ecco, sembra dirci Durrenmatt in queste trenta pagine, come gli innocenti, uomini ed animali, si trasformano in bestie.

Brevi interviste con uomini schifosi

Brevi interviste con uomini schifosi

Ciascuna cosa, per quanto sta in essa (ossia per quanto essa può), si sforza di perseverare nel suo essere.

Lo sforzo con cui ciascuna cosa procura di perseverare nel suo essere non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa, cioè il suo essere, e il suo esserci, presente ed attivo.

(Spinoza, eticha, parte III, preposizioni VI e VII)

Questa struttura comportamentale innata vale per tutti, quindi un uomo tende a vivere, a sopravvivere, con tutte le sue forze (Conatus). Tale sforzo si definisce in due forme: quando attiene l’intelletto, la mente, si chiama Volontà, quando invece riguarda il corpo e la mente, Appetito. Ancora, quando l’appetito è cosciente di sé, abbiamo la Cupidità.
Questo ricorso a Spinoza serve innanzitutto a dare un tono colto al mio discorso, poi a mostrare come per molti pensatori l’egoismo sia la base stessa, l’essenza, della vita umana. Non mi dilungherò oltre su una tale evidenza.

Arriviamo finalmente al cuore pulsante dell’articolo che è il libro Brevi interviste con uomini schifosi di DFW. Si tratta di un libro duro, difficile, bellissimo. Complicato perchè scandaglia con tentacoli nella materia oscura dell’anima, pone domande, immette pensieri scomodi.

I suoi racconti non indagano affatto il carattere dei personaggi: non se lo propongono neanche. Sono viceversa rivolti all’esterno, verso di noi. È il nostro carattere quello che viene sottoposto a indagine. E questo è fantastico.

Tema centrale mi pare appunto l’egoismo, o meglio l’essere intrappolati dentro sè stessi in varie modalità: nei propri pensieri, nelle proprie paure, nella propria stupidità, nei propri meccanismi difensivi. A scavare ancora troviamo lil vero mostro, la bestia nera di DFW: l’incomunicabilità. L’impossibilità di una condivisione vera con le altre persone, disperatamente cercata, in mille modi sbagliati, e mai trovata. Anche quando sembra essere dietro l’angolo ecco che sparisce, pallido fantasma che ci riconsegna alla nostra personale e terrificante solitudine.

Come dice Zadie Smith nell’introduzione:

Dave ha detto cose geniali sul dono: sulla nostra incapacità di dare gratuitamente, o di accettare quello che ci viene dato gratis. Nei suoi racconti, dare è diventato impossibile: la logica di mercato permea ogni aspetto della vita.

Ecco, volevo dire solo questo, anche perchè è quasi ora di cena. Incomunicabiltà e dono.