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F. Durrenmatt – Il minotauro

Durrenmatt, nelle poche ma intense pagine che compongono Il minotauro, reinterpreta a suo modo la mitologia, rovesciandone la prospettiva. Se il mito descrive il minotauro come un essere irrazionale, un animale violento che segue il proprio istinto a discapito della ragione, il cui unico scopo è uccidere e cibarsi, nell’ottica di Durrenmatt diventa un essere innocente, una vittima sacrificale che espia una colpa antecedente alla sua nascita, che paga con la vita il suo essere diverso, non assimilabile, unico nel suo genere.

L’assenza di raziocinio impedisce all’essere mezzo uomo e mezzo toro di comprendere a fondo quanto lo circonda, egli vorrebbe innanzitutto danzare ebbro di gioia con gli altri esseri simili a lui, irreali riflessi di specchi, e con i fragili esseri umani che incontra nel labirinto. Al principio egli semplicemente crede e ha fiducia, e in questo credere c’è un’ingenuità disarmante, ma ben presto si accorge che non esiste creatura reale simile a lui, solo fredde superfici levigate, e che non è possibile nessuna condivisione nè comprensione con chi è diverso da lui.

“Avvertì che non esistevano tanti minotauri, ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, e questo solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto fra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito;”

Quindi l’animale percepisce, non tramite concetti, ma visceralmente, con istinto d’animale, di essere solo, unico, diverso. L’unica scelta che rimane, rinchiusi per sempre in un labirinto ostile ed incomprensibile, persi in un mondo che “dichiara colpevoli gli innocenti e le cui leggi sono ignote”, è quella di abbandonare i propri sogni e combattere. Uccidere o essere ucciso. Farsi carnefice e morire.

“e quando l’avvertì, come percezione senza comprensione, come un’illuminazione senza conoscenza, non come una nozione umana fatta di concetti ma come nozione di minotauro fatta d’immagini e di sensazioni, crollò a terra, e allorché giacque, raggomitolato com’era stato raggomitolato nel corpo di Pasifae, il minotauro sognò di essere un uomo. Sognò un linguaggio, sognò fratellanza, sognò amicizia, sognò sicurezza, sognò amore, vicinanza, calore, e contemporaneamente seppe, sognando, di essere un anormale cui non sarebbe mai stato concesso un linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai amore, mai vicinanza, mai calore, sognò come gli esseri umani sognano degli dei, con tristezza d’uomo l’uomo, con tristezza d’animale il minotauro”.

Ed è ironico come sia proprio l’illusione ultima, quella più umana, la vana speranza di aver trovato un essere simile a lui, che invece altri non è che Perseo travestito, a dare insieme la più alta ebbrezza di gioia e il più alto tradimento.

“Il minotauro cominciò a danzare. Danzò la danza della fratellanza, la danza dell’amicizia, la danza della sicurezza, la danza dell’amore, la danza della vicinanza, la danza del calore. Danzò la sua felicità, danzò la sua dualità, danzò la sua liberazione, danzò il tramonto del labirinto, lo sprofondare fragoroso di pareti e specchi nella terra, danzò l’amicizia tra minotauri, animali, uomini e dei, il filo rosso di lana, avvolto fra le corna, danzò attorno all’altro minotauro che tese il filo rosso di lana, trasse il pugnale dalla guaina di pelo senza che il minotauro se ne accorgesse, e le immagini dell’uno danzarono attorno alle immagini dell’altro che tendevano un filo rosso di lana e traevano un pugnale dalla guaina di pelo, e quando il minotauro si gettò fra le braccia aperte dell’altro, confidando di aver trovato un amico, un essere come lui, e quando le sue immagini si gettarono fra le braccia delle immagini dell’altro, l’altro colpì e colpirono le sue immagini, l’altro piantò con perizia tale pugnale fra le spalle che il minotauro era già morto quando s’accasciò a terra”.

Ecco, sembra dirci Durrenmatt in queste trenta pagine, come gli innocenti, uomini ed animali, si trasformano in bestie.