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J. Roth – La Ribellione

La Ribellione è un romanzo scritto nel 1924, intriso del sentimento rabbioso e stupefatto che segue la Grande Guerra. Non a caso il protagonista è un reduce, Andreas Pum, che ha perso una gamba in battaglia. Ma Andreas, al contrario di molti suoi compagni non è triste né disilluso, bensì un uomo che nutre ancora un’irrazionale fiducia nella giustizia umana e divina, disprezzando coloro (i ‘pagani’) che si ribellano allo status quo:

“Se in quel momento qualcuno avesse domandato ad Andreas di definire i pagani, egli avrebbe risposto così: quelli, ad esempio, che stanno in prigione, o anche quelli che per caso non sono stati ancor acciuffati. Andreas Pum era molto contento che gli fossero venuti in mente i ‘pagani’. La parola gli bastava, risolveva i suoi assillanti interrogativi e dava risposta a numerosi enigmi. Essa, inoltre, lo esimeva dal’obbligo di continuare a rimuginare e tormentarsi nello sforzo di capire gli altri”.

Ma la vita del protagonista, d’improvviso, deraglia dai binari prestabiliti: niente più lavoro, niente più moglie, niente più speranze. Con bonaria ironia vediamo Andreas rimanere intrappolato in scene degne del miglior Kafka, teatri dell’assurdo dove le relazioni con il potere e con l’altro si configurano come condanne all’emarginazione e alla più tetra solitudine. E gli occhi del protagonista, come folgorato da una rivelazione, si aprono di colpo:

“Ahimè! Il mondo non era mutato affatto! Era sempre stato così! Solo un colpo di fortuna può far si che non ci mandino in galera. Il nostro destino è dare scandalo e inciampare nel groviglio di leggi che proliferano con arbitrio selvaggio. Le autorità sono ragni in agguato in una rete sottilissima di regolamenti, e rimanere intrappolati in quelle maglie è solo questine di tempo. […] Il governo, ce ne rendiamo conto solo adesso, non è più così lontano, né qualcosa che sta in alto sopra di noi. Ha tutte le debolezze terrene e con Dio non ha contatti di sorta. Soprattutto abbiamo visto che non è costituito da un unico potere”.

La fede di Andreas negli uomini, nella giustizia, nel governo, in Dio, si sbriciola e al suo posto rimane solo un cratere buio e profondo. Ed è lì che trova posto la consapevolezza, inizia a sgorgare da una sorgente nascosta, una fenditura nella profondità della terra, che non porta però consolazione, solo un’impotente comprensione di essere stato ingannato per quarantacinque anni:

“Forse non ero neanche un essere umano. O forse avevo il cuore malato di sonno. Perchè questo può succedere. Il cuore può dormire molto a lungo e continuare a pulsare, ma per tutto il resto essre come moto. Non pensavo mai con la mia povera testa. Perchè la natura non mi ha concesso la benedizione di un ingegno acuto e il mio debole intelletto è stato ingannato dai miei genitori, dalla scuola, dai miei insegnanti, dal signor sergente e dal signor capitano, e dai giornali che mi hanno dato da leggere”.

Andreas vede la luce solo quando si trova immerso nel buio di una cella di prigione, solo lì si rivela la realtà del mondo di fuori. Andreas allora capisce: fa parte del mondo degli uomini sconfitti, di coloro che vagano sulla terra stritolati, loro malgrado, dai circuiti ciechi e spietati dei meccanismi umani e divini. Si dichiara allora, con un’inversione completa, in un mondo senza giustizia, fiero di essere pagano:

“Aveva l’impressione che l’intento segreto degli scassinatori fosse quello di ristabilire la giustizia nel mondo con metodi violenti”

Nonostante la cupa desolazione che pervade il romanzo, il sentimento di una sconfitta certa senza via di scampo, la ribellione non è una discesa nela disperazione ma una preghiera muta, un atto di amore mancato, una supplica inascoltata verso il mondo.